San Francesco d’Assisi cantore tra poesia e santità (festa 4 ottobre)
Oggi non è di moda il mostrare la figura di San Francesco d’Assisi come poeta e cantore-laudatore del Signore. Se ne preferiscono altre qualità e, in questa voluta scelta ad excludendum, si commette una infelice mancanza che pregiudica la natura del santo, se non la falsa. Di conseguenza per ritrovarne l’interezza e la spontaneità d’amore che gli si attribuisce occorre lasciare da parte il confuso presente e, almeno per chi avverte che esiste un difetto nella lettura moderna, rifarsi ad autori-studiosi del passato. In particolare, tra i filologi e critici letterari che ne ebbero venerazione, guardare a don Francesco Paoli dell’Istituto di Carità di Torino (1808-1891), seguace e segretario dal 1839 di Antonio Rosmini e considerato figura “di spicco della pedagogia cattolica” (Bonafede).
Paoli scrisse San Francesco d’Assisi poeta cantor del divino Amore ... e pubblicò il libro a Torino nel 1843. Nel testo ricordò che l’amabile Poverello compose cantici o sacre canzoni, ma che di queste “oltre il cantico del Sole, che non è d’altro che un semplice invito alle creature a lodare con esso seco il Signore alla guisa di quello dei tre fanciulli nella fornace di Babilonia, non ce ne rimangono sfortunatamente di certi altro che due”.
E li annuncia. Il primo comincia con In foco amor mi mise e il secondo con Amor di caritate ...
Ci fu anche – continua l’autore – chi nella storia della letteratura non attribuì al santo la paternità dei cantici e addirittura negò che mai fosse stato poeta “immaginando un obbrobrioso divorzio e inimicizia tra la santità e la poesia; il che è falsissimo essendo quella anima ed inspiratrice di questa, e questa un cotale ornamento di quella.
Per lo che pare a me di fare buona ed utile cosa anzi troppo giusta e necessaria a rivendicare a San Francesco queste poesie, e con ciò fare anche la guerra a quel molto dannoso pregiudizio ed ingiurioso” che suppone la poesia nemica della santità.
Paoli quindi fa l’esempio dei Fioretti e cita il brano su San Francesco che “alquanti dì innanzi alla morte sua istette infermo in Assisi nel palagio del vescovo con alquanti de’ suoi compagni, e con tutta la sua infermità egli ispesse volte cantava certe laudi di Cristo.
Un dì gli disse uno de’ suoi compagni: «Padre, tu sai, che questi cittadini hanno grande fede in te, e reputanti un santo uomo; e perciò e’ possono pensare, che se tu sei quello, che elli credono, tu doveresti in questa tua infermità pensare della morte, e innanzi piangere che cantare, poiché tu se’ così gravemente infermo; e intendi, che il tuo cantare e il nostro, che tu ci fai fare, s’ode da molti e del palagio e di fuori; imperocché questo palagio si guarda per te di molti uomini armati, i quali forse ne potrebbono avere malo esemplo. Onde io credo, disse questo frate , che tu faresti bene a partirti di quinci, e che noi ci tornassimo tutti a Santa Maria degli Agnoli, perocché noi non istiamo bene qui tra li secolari».
Li risponde San Francesco: «Carissimo frate, tu sai, che ora fa due anni, quando noi istavamo a Fuligno, Iddio ti rivelò il termine della mia vita, e così lo rivelò ancora a me, che da qui a pochi dì, in questa infermità, il detto termine si finirà: e in quella rivelazione Iddio mi fece certo della remissione di tutti i miei peccati e della beatitudine del Paradiso.
Insino a quella rivelazione io piansi della morte e delli miei peccati: ma poiché io ebbi quella rivelazione, io sono pieno d’allegrezza, ch’io non posso più piangere; e però io canto, e canterò a Dio, il quale mi ha dato il bene della grazia sua, ed hammi fatto certo dei beni della gloria di Paradiso.
Del nostro partire di quinci io acconsento e piacemi: ma trovate voi modo di portarmi, imperocché io per la infermità non posso andare».
Allora i frati lo presero a braccia, e sì ’l portarono, accompagnati cioè da molti cittadini”.
Oltre ai Fioretti, su San Francesco poeta e cantore, Paoli menziona gli studi del padre dell’Oratorio Antonio Cesari († 1828, Fiore di storia ecclesiastica) e situa la sua più alta ispirazione dopo l’evento delle Stimmate, quando sentendosi “acceso della ferita amorosa compose, (quasi per divino estro ispirato) due cantici altissimi in laude di quell’amore che lo aveva trafitto”.
Altra fonte che riporta è la quinta antifona delle Lodi dell’ufficio divino della festa del 4 ottobre quando i francescani cantano:
«Laudando ci ammonì a laudare, famigliare e continua era a lui la lode: la lode dico del Salvatore: invita gli uccelli, le bestie, e l’altre creature a lodare il Creatore».
Vi aggiunge il responsorio della quarta lezione: «Mentre il zelatore della legge nuova a mezzo gnudo corpo ne canta francesemente le lodi: così nella selva profeticamente risponde ai ladroni (che lo avevano assalito): «Io sono il banditore del gran Re». E in latino più propriamente e più energicamente all’uopo nostro si dice: «Laudes decantat gallice». Ovvero – scrive il Paoli – chi compose l’ufficio “volle molto sapientemente” conservare la memoria di Francesco che poetava cantando, che lo fece anche in lingua francese e che era cosa notissima.
Il santo dovette essere anche un trovatore provenzale perché la Provenza ai suoi tempi “era piena di poeti, e la sua lingua resa già colta ed armonica per il verso e la rima molto innanzi all’italiana, per guisa che non pochi italiani, come il viniziano Zorzi, il mantovano Sordello, e il genovese Percivalle ...” cantavano in provenzale.
Il Poverello trasformò l’amore terreno in “nobilissimo e gentilissimo amore, quale è il sopranaturale e divino, e quale era il suo allora tutto fresco e giovanile”. Quando sentì dentro la fiamma dell’amore divino, e “sfumatagli alquanto dalla memoria la fantastica Provenza”, parlò la lingua del Cielo e scrisse i cantici dedicati proprio a quest’amore.
Non è qui sede di analisi letteraria e filologica. Ma del secondo canto, Amor di caritate, mi piace riportare tre “lassi” (strofe caratteristiche) centrali. Sono quelli dove Francesco sente che è “annegata la mente” e questo mi ricorda un antico giovanile entusiasmo per Leopardi e l’ Infinito del “naufragar m’è dolce in questo mare”, anche se di altra natura e ispirazione.
XI. Veggendo tal bellezza, sì son tratto
Fuor di me, né so dov’io son portato.
Lo cor si strugge, come cera sfatto.
Di Cristo si ritrova figurato.
Già non si trovò mai cotal baratto;
Per vestir Cristo, tutto ho spogliato.
Lo cor, sì trasformato,
Amor grida, ché sente
Annegata la mente:
Tanto sente dolzore!
XII. Annegata è la mente con dolcezza,
E tutta si distende ad abbraciare;
E quanto più risguarda alla bellezza
Di Cristo, fuor di se si fa gittare
In Cristo tutta posa con ricchezza,
Di sè memoria nulla può serbare.
Ormai a se più dare
Altra cosa non cura;
Nè può perder valura
Di se ogni sentore.
XIII. In Cristo trasformata, quasi è Cristo;
Con Dio unita tutta sta divina:
Sopra ogni altura è sì grande acquisto,
Di Cristo è tutto il suo e sta Regina.
Or dunque potrei io star più tristo
Di colpa, dimandando medicina?
Nulla c’è più sentina,
Dove trovi peccato.
Lo vecchio n’ è mozzato,
Purgato ogni fetore.
San Francesco intende come “mente” la parte divina dell’uomo, la quale, annegata con dolcezza, è trasformata in Cristo ed in Cristo nasce come nuova creatura.
Anche Dante scrisse: “Amor che ne la mente mi ragiona ...” (Convivio III, 1) e “si puote omai vedere che è mente: che è quella fine e preziosissima parte de l’anima che è deitade (Convivio II, 19).
Paola Ircani Menichini, 3 ottobre 2025. Tutti i diritti riservati.
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